Mio padre era meridionale, geograficamente e … mentalmente.
Non potei andare in piscina con la scuola che frequentavo perché l’istruttore era un MASCHIO.
Mio fratello che era un maschio sì invece, ma gli veniva da vomitare tutte le volte che ci doveva andare.
Devo dire che a tanti anni di distanza non riesco ancora a capire come mai mi iscrisse all’Istituto tecnico per Arti Grafiche e Fotografiche, frequentato esclusivamente da ragazzi.
Dal 1956 al ’60 l’istituto si trovava in via Sant’Ottavio proprio vicino a dove in seguito fu costruito Palazzo Nuovo.
Chi è di Torino sa a cosa mi riferisco.
L’ultimo anno fu trasferito in Via Ponchielli all’altro capo della città, ¾ d’ora di tram. Attualmente il nome dell’istituto è Bodoni.
Studiavo anche in tram e ripetevo le lezioni ad una mia amica che faceva la commessa da Vidor in Via Roma ( vendita di capi di cachemire che esiste ancora adesso).
Otto ore al giorni di lezioni, con intervallo per il pranzo.
Lezioni anche il sabato, mezza giornata.
Poi compiti ancora da fare a casa, la sera.
Teoria tanta.
Pratica poca.
Una settimana si frequentavano le lezioni di foto artistica ( ritratti con un monumento di macchina fotografica a lastre 13x18, diaframma sempre lo stesso, luci più o meno anche ). Ricordo ancora il mio professore: il Professor Riccardo Scoffone.
A me sembrava vecchissimo e ci faceva le lezioni standosene seduto su una sedia con una coperta termica sulle gambe.
Le lezioni avevano luogo nello scantinato della scuola ma non mi sembra che facesse poi così freddo.
La settimana dopo facevamo fotografia industriale: riprese varie con lastre o pellicole 9x12 cm che venivano sviluppate 15 giorni dopo.
Insomma per farla breve per vedere i risultati stampati dei nostri sforzi doveva passare un mese e mezzo.
Quando cominciai a lavorare, presso l’Istituto di Archeologia furono dolori.
Sapevo fare veramente poco.
Il mio direttore invece era un genio della fotografia e quando era a Roma stampava a colori confrontando i provini direttamente con i mosaici che aveva fotografato.
Allora lo sviluppo del colore, anche nei laboratori fotografici, avveniva per tentativi eliminando per mezzo di filtri e volta per volta, le dominanti di colore che potevano apparire sui provini.
I tempi di sviluppo duravano un’ora e la temperatura doveva essere costante: 24° esatti altrimenti i colori potevano alterarsi.
Ovviamente i laboratori avevano dei dispositivi che garantivano la temperatura costante, io dovevo farlo a mano.
Piano piano imparai, grazie al mio capo, tutte le astuzie riguardanti la fotografia
Il mio lavoro consisteva in riprese di oggetti, ovviamente reperti archeologici, riproduzioni da libri, microfilms, stampa in bianco e nero, riprese a colori e relativa stampa su carta , sviluppo delle diapositive, gigantografie su tela e su carta e tutto da sola.
Ne ho fatto veramente di tutti i colori in ogni senso.
All’inizio dovevo fare le riproduzione da libri delle fotografie che servivano per le lezioni di Archeologia Greca e Romana. Dai negativi dovevo fare la stampa su materiale trasparente, montarlo in telaietti , pulendone i vetrini, una valanga ogni volta, stampa a contatto per le schede e ingrandimenti per le dispense, in 3 copie .
Col passare degli anni i corsi aumentarono.
Si aggiunsero oltre ai corsi già citati, e ci sono tutt’ora quelli di archeologia orientale, medievale, cristiana e quelli di etruscologia.
Poi cominciarono le missioni in Iraq da ottobre a Natale e alcune volte non tornavo neanche a casa e mi fermavo fino a Pasqua.
In Missione il lavoro era di tutto riposo.
Dovevo fotografare centinaia di oggetti, a volte migliaia come nel caso delle bullae, di cui dovevo fare anche le diapositive.
Il lavoro doveva andare bene subito e non era ripetibile perché, a fine missione, dovevamo consegnare gli oggetti alle autorità iraquene .
Le diapositive venivano sviluppate in Italia e per il bianco e nero quello che non riuscivo a fare a Bagdad doveva essere completato in Italia.
Ovviamente dovevo sviluppare e stampare anche le foto di scavo e stamparle in triplice copia.
Oltre al lavoro di fotografa, durante varie missioni avevo anche l’impegno di dirigere l’andamento delle case della missione, una sorta di governante: dirigere la servitù, decidere i menù, tenere i conti ed organizzare eventuali cene di rappresentanza.
Essendo noi una missione archeologica all’estero, a volte capitava di dover invitare per cene o ricevimenti ambasciatori di altre nazioni o funzionari iraqueni con cui eravamo in rapporti di lavoro e con cui il mio capo aveva rapporti di amicizia.
Poi cominciai ad andare anche in Calabria e In Sicilia sempre per riprese oggetti, ma anche per fare riprese fotogrammetriche.
Ricordo ancora con angoscia quando fotografavo dall’alto gli scavi, con una speciale macchina adatta a questo tipo di riprese, in un cestello tipo quelli che usano gli operai dell’Enel per la riparazione del lampioni.
Feci questo tipo di riprese anche in Iraq.
Il mio direttore non volle che, durante sia il viaggio aereo di andata che di ritorno, spedissi le macchine fotografiche che erano custodite in 2 valigette di legno col resto del bagaglio.
Le dovetti portare con me in cabina: 2 scatole di legno del peso di 16 chili , una per mano e con la borsetta fra i denti.
In Iraq dovetti fare le riprese fotogrammetriche al palazzo abbasside per eccellenza: il TaK-I Kisra.
La storia e l'importanza di questo palazzo che rappresenta l'Iraq andrebbe approfondita da chi lo desiderasse andando a consultare le pagine, numerose presenti in Internet.
Ricordo ancora quando, all’ombra di una tenda e seduta per terra, toglievo le lastre impressionate dagli schiassis, le riponevo nella scatola delle lastre esposte e le sostituivo con lastre vergini.
Forse qualcuno si chiederà come lo facessi alla luce del sole anzi all’ombra di una tenda.
Usavo uno speciale manicotto nero di tela spessa che noi fotografi chiamavamo “mutanda”
In effetti assomigliava ad una mutanda e questa recava sul lato alto, diciamo di un ideale punto vita, una lunga cerniera, aperta la quale, si introduceva tutto quello che ci serviva per il cambio delle lastre: scatole di lastre nuove o contenitori vuoti da riempire o da cui prelevare le lastre vergini.
Dai due lati da cui ipoteticamente dovevano uscire le gambe si introducevano le braccia e quindi, con cautela si effettuava lo scambio.
E di questo tipo di riprese ne ho fatte veramente tante.
Quando si trattava di fare gigantografie, e questa volta nella camera oscura dell’istituto, facevo scorrere l’ingranditore su guide metalliche e proiettavo i negativi sul muro.
Il bidello mi aiutava a piazzare la carte o la tela e a fissarla con nastro adesivo poi sviluppavo queste lenzuola e questa volta da sola in vasche lunghe 2 metri.
Ancora non mi sembra vero di essere riuscita a fare tutto questo.
E le settimane, in estate, passate a fotografare le bulle che erano una sorta di gnocchetti di argilla a forma di anello che servivano per accompagnare dei documenti, ognuna delle quali poteva contenere da una a venti impronte!. Tutte da fotografare una per una. E con 2 lampade da 500 watts addosso e in una stanzetta chiusa.
Spesso il rilievo delle figure era appena percettibile ma io dovevo evidenziare al massimo ogni dettaglio.
La maggior parte delle riprese dovevano essere buone subito e con le diapositive non era possibile fare nessun ritocco.
Ricordo ancora il mio direttore che, gonfiando il petto con orgoglio, diceva ai suoi colleghi che il laboratorio fotografico era in grado di fare qualunque cosa.
Lo avrei azzannato.
Il laboratorio fotografico ero IO.
Quando durante la guerra in Iraq i ladri dopo aver razziato tutto quello che potevano nell’Istituto italo-iraqueno, radunarono nella biblioteca tutti i libri di cui era dotata per dare loro fuoco mi venne male.
Quei libri li avevo fotocopiati tutti io con una delle prime fotocopiatrici apparse sul mercato: un vero monumento.
Una buona parte di quei libri li avevo fotografati io riproducendoli dagli originali: riprodotti e stampati su carta fotografica per posta aerea per diminuirne il peso.
Ora con le nuove tecnologie è una PACCHIA.
Quando sono andata in Libano e in Giordania avevo la mia piccola adorata Canon nella borsetta e non più un trolley pieno di macchine fotografiche.
Mai più ore ed ore in camera oscura al caldo o al freddo o al tiepido come mi è capitato nella cantina di casa mia con la temperatura dei bagni a 8°. Dovevo portare assolutamente la temperatura alla giusta gradazione e ciò avveniva con l’immersione, a bagnomaria, nelle vaschette contenenti i bagni di sviluppo e di fissaggio, di pentolini contenenti acqua bollente altrimenti col fischio che riuscivo a sviluppare e fissare le stampe.
Ora fare il fotografo è più semplice con la digitale, computer e con photoshop.
Ma rimane sempre la tecnica, l’esperienza, il saper illuminare i reperti per tirare fuori tutti i dettagli.
Nessun programma di ritocco col computer lo può fare.
Almeno mi illudo.
Voglio solo dire per, concludere che quando andai in pensione in Istituto avrebbero avuto bisogno di tre persone per fare il lavoro che facevo io .
DA SOLA
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