lunedì 14 settembre 2009

Le mie missioni...parte sesta

Ci sono ricascata....

Anche questa volta i mesi sono passati senza aggiungere l' epilogo, forse, a questa serie di racconti...

Non ho una grande memoria: alcune persone conservano, scolpiti nella loro mente fatti, luoghi, conversazioni con il ricordo addirittura delle parole pronunciate.... ciò non accade a me!!
Ma di quel periodo, fine anni '60, ho un ricordo ben netto..

Come ho scritto nel post precedente la missione era turbata, io aggiungerei funestata, dalla presenza di questo esperto che con l'aria di voler ascoltare tutti con aria benevola, quasi da confessionale (eh sì perché era un ex prete) provocava, invogliava a fare commenti.....

In più, da vero censore della morale, riportava al nostro capo tutti quegli atteggiamenti, conoscenze ed amicizie che a lui sembravano poco...convenienti....

Io stessa ne sono rimasta danneggiata con relativa "punizione"..

Infatti fui mandata a svolgere il mio lavoro fotografico sullo scavo in una realtà molto scomoda dal punto di vista professionale, infatti dovevo lavorare in un prefabbricato con pavimento di legno ( e questo mi dava fastidio per via della stabilità, infatti prima di scattare le mie foto dovevo stare ferma altrimenti ballava tutto e le foto potevano risultare mosse) e per la corrente elettrica fornita a fasi discontinue da un generatore.....

Ma non fu neanche quello il problema più grosso: la nostra restauratrice, giovane e molto brava nel suo lavoro, si ritenne al centro di un complotto di cui, secondo lei, io facevo parte.....

Illazione del tutto gratuita ma che portò a risvolti sgradevoli in tutti i sensi.....

In missione si tende a instaurare rapporti amichevoli: si è lontani da casa, si è tristi, si tende a fare delle confidenze personali ed è quello che avvenne tra me e lei...

Io le raccontai i "fatti" miei e lei fece altrettanto ma.... quando si creò questo clima pieno di tensioni la cara ragazza raccontò tutto quello che le avevo confidato al tizio di cui parlavo prima con il risultato che quando tornai in Istituto per un breve periodo di stacco durante le vacanze natalizie tutti e dico tutti sapevano i miei fatti personali....

In più la restauratrice in questione decise di interrompere il suo rapporto di lavoro che doveva svolgersi nell'arco di sei mesi e si impegnò, per fortuna nostra , a trovare un sostituto attingendo alle risorse che le venivano offerte dall'Istituto di Restauro di Faenza che lei stessa aveva frequentato.....

Il primo candidato contattato non poté venire a lavorare per noi in quanto doveva soddisfare gli obblighi di leva e quindi ne trovò un altro che, pur frequentando l'ultimo anno di scuola e precisamente il biennio di restauro, poteva impunemente assentarsi dalle lezioni per un periodo di tre mesi.....

Fu così che questo aspirante restauratore venne a Torino per prendere contatto con i capi del mio Istituto e per definire tempistiche e compensi.

Mi recai quindi pressi i locali del Centro Scavi per vedere che faccia aveva in quanto ci dovevamo incontrare a Roma (lui veniva da Faenza) per proseguire il viaggio fino a Baghdad...

Me lo ricordo ancora: impermeabile di plastica bianco, pantaloni a zampa d'elefante (erano gli anni '70) barbone nero (cresciuto a seguito di un incidente automobilistico che gli aveva impedito di radersi per parecchio tempo) massa di capelli ondulati e ...occhio basso.....era un timido almeno all'apparenza.

Devo dire che sul momento non mi ispirò alcun sentimento, neanche di simpatia...mi era completamente indifferente e a lui apparii come una madre di famiglia con almeno due figli..così mi disse ( devo dire che allora ero bene in carne e non precisamente un mostro d'eleganza!!)..

Certo che come esordio per quello che poi diventò il mio grande amore non era il massimo!!!

Ci ritrovammo all'aeroporto romano: io stavo friggendo perché l'aereo doveva partire di lì a poco e lui...NON ARRIVAVA!!!!

Finalmente lo scorsi che veniva al seguito di un facchino (i trolley non erano ancora stati inventati) olimpico e completamente rilassato......

Mi ricordò in seguito che gliene dissi di tutti i colori....

Il viaggio di rientro a Baghdad si volse almeno per me con un senso di angoscia perché ero conscia che l'atmosfera che vi avrei trovato non sarebbe stata delle migliori ma non sapevo ancora che durante quei mesi che seguirono, fino a Pasqua, la mia vita sarebbe cambiata.....

mercoledì 15 aprile 2009

Le mie missioni...parte quinta

Ebbene sì ho fatto passare parecchi mesi dall'ultima puntata anche se avevo promesso di non farlo!!!!

Sono andata a rileggere cosa ho raccontato nel post precedente solamente per non ripetermi ed ora altri avvenimenti mi vengono in mente.

La casa della missione, la prima, era circondata da un piccolo giardino curato da Gheorghis un vecchietto dell'età di circa 200 anni tanto appariva anziano e cadente.

I suoi due figli lavoravano da noi come camerieri, ma la sua era una "dinastia" di camerieri che prestavano servizio presso le case di altri italiani, per lo più dipendenti dell'ambasciata e, a modo loro, masticavano un po' di italiano misto ad arabo.

Un giorno arrivò Just, chiamato così per abbreviarne il nome, ma il nome completo sarebbe stato Just Arrived.

Infatti costui, che poi era un delizioso cucciolo di cane giallo, come quasi tutti i cani iraqueni, credo fosse stato messo di proposito nel nostro giardino seguito a ruota da un altro che, malati come eravamo di nostalgia, fu subito battezzato Valentino, sicuramente fratello dell'altro.

Ma era una Valentina.

Furono accuditi clandestinamente, considerando l'avversione del nostro capo per i cani (quelli che circolavano vicino allo scavo erano veramente pericolosi) e arrivato il momento del rientro si prospettò il problema delle vaccinazioni e di tutte le rognosissime pratiche relative per il trasporto aereo.

E perché????

Perché un'archeologa che stravedeva per gli animali aveva deciso non solo che se li sarebbe portati in Italia ma che IO, che tanto stavo a casa, potevo interessarmene.

Non so ancora come riuscii a fare tutto, ma il nostro fido Gibrail, uno dei figli di Gheorghis, mi accompagnò presso un centro veterinario per le pratiche relative.

Di quel centro ricordo solo un medico veterinario (spero vivamente che lo fosse) con il braccio infilato fino all'ascella nella parte posteriore di una mucca......

Poi recuperai una cassetta vuota di Blak and White che fu il "trasportino" destinato ad accogliere due cuccioli verso il loro dorato destino italiano.

Poi fu la volta di Mau Mau una sdegnosa gatta che girava sempre nel cortile.

Sdegnosa perché non si lasciava avvicinare ma che gradiva i nostri avanzi.

Ad un certo punto cominciò a lievitare per cui tutti eravamo ansiosi di assistere al lieto evento.

Non so come si infilò in camera mia e, approfittando dell'anta aperta di un armadio, si posizionò sulla mia biancheria e LI' le si ruppero le acque.

Non paga di ciò venne a partorire sotto il mio letto per cui passai tutta la notte a vedere cosa combinava......nel caso potessi essere utile in qualche modo.

Anche lei fu una clandestina questa volta alloggiata con i suoi deliziosi 4 cuccioli nella sala dei disegnatori.

Le portavo da mangiare (si degnava di accettare) ed intanto contemplavo i piccoli che crescevano a vista d'occhio.....

Un giorno al mio rientro a casa, probabilmente ero andata al suq, salendo le scale che portavano al mio gabinetto fotografico vidi il primo cucciolo morto ed ad uno ad uno dislocati sulle scale anche tutti gli altri.

In casa era stato intrappolato il maschio che li aveva uccisi per poter disporre della madre, e non riuscendo a trovare una via di fuga era diventato veramente pericoloso.

Per fortuna c'era un traduttore di caratteri cuneiformi alto 2 metri che lo affrontò tenendo in una mano il coperchio del bidone delle immondizie a mo' di scudo e nell'altra un tubo di cartone destinato a contenere dei disegni come se fosse stata una spada.

Il gatto valutando l'altezza dell'avversario, si era posizionato sul mobile più alto per attaccarlo ma per fortuna fu messo in fuga.

Sono passati veramente tanti anni ma il ricordo di quei corpicini straziati è ancora vivido nella mia memoria.

La nostra vita sociale non era molto attiva ma soprattutto era noiosa.

Ricordo ancora quei ricevimenti presso l'ambasciata ambasciata che aveva stufato veramente tutti tant'è vero che un anno mio rifiutai di portare abiti da sera per avere la scusa di non parteciparvi.

La nostra vita trascorreva tranquilla: ognuno faceva il suo lavoro e ce n' era veramente tanto e quindi a parte qualche gita nei dintorni, opportunamente organizzata con i vari permessi della Soprintendenza iraquena, non succedeva nulla di eclatante.

Solo un anno ci fu un problema abbastanza grave che ci toccò abbastanza da vicino.

Un carico di grano da semina trattato al mercurio (per preservarlo dalla marcescenza) e destinato alla semina era stato inviato al popolo iraqueno dagli Stati Uniti che allora erano un stato amico di Saddam .

Il guaio fu rappresentato dal fatto che ad un certo punto questo grano ( per ignoranza e mancanza di informazione) fu dato in pasto alle galline ed altri animali di casa che puntualmente morirono alcuni furono furono gettati nel fiume inquinandolo e causando la moria anche dei pesci ed altri mangiati.

Il nostro cuoco non sapeva più cosa portare in tavola e il ricordo dei bei pranzetti che ci preparava era ricorrente al confronto di quello che riusciva a cucinare!!

Ma questo era il meno rispetto a quello che era capitato a coloro i quali avevano mangiato gli animali avvelenati!!!

Verso la fine degli anni 60 anche la vita della nostra missione fu turbata (è un gentile eufemismo) dalla presenza di un membro arrivato in qualità di esperto e di cui non posso dire nulla di più in quanto è ancora vivente, che seminò zizzania ovunque gli capitasse di passare.

In qualunque ambiente basta una sola di queste persone per rendere difficile la convivenza......









lunedì 15 dicembre 2008

Le mie Missioni..... parte quarta

Forse qualcuno si chiederà:" E che ci azzecca (alla Di Pietro!!!) questa testa di gesso con i miei lavori in Iraq?

Invece è pertinente......


Nel Museo di Bagdad c'era una specie di laboratorio, che ovviamente non ho mai visto, perché l'accesso di parecchi locali (depositi, restauro ecc.) è proibito al pubblico . in cui venivano fatte le copie in gesso dei reperti più belli ed interessanti esposti nelle sale del Museo.

Ora io non ricordo assolutamente quanto l'ho pagata, e grazie a chi ne sia venuta in possesso.....


A quei tempi spedivamo, quando ritornavamo in patria, delle casse in legno e molto grandi fatte fare appositamente per noi della missione e grazie alle quali sono riuscita a portare a casa oggetti ingombranti che mai avrei potuto trasportare con i mezzi tradizionali.....

Ora questa bellissima copia in gesso raffigura la testa di una statua rinvenuta negli scavi di Hatra, nord Iraq, si trova nell'ingresso di casa mia, unitamente ad altre due ma di interesse minore (una paperella sempre di gesso ma dipinta in nero nera ed una statuetta raffigurante un Gudea stante con le mani incrociate e con il gonnellino recante scritte cuneiformi.

Forse nelle foto precedenti sarà stato possibile notare delle leggere ammaccature, mai restaurate, pur essendo mio marito restauratore appunto, dovute ai colpi di cuscino dei miei figli che si inseguivano per la stanza.

La testa è quasi volata per terra ed io ho pensato: "Ma guarda, tanta fatica per imballarla, farla arrivare a casa dei miei, poi il trasloco nella casa in cui sono andata ad abitare quando mi sono sposata, ed infine l'ultimo trasloco qui, e questi due sciagurati a momenti me la distruggono!!!!!!"

Devo dire che ho ringhiato a lungo!!!

La foto che appare qui sotto rappresenta la locandina della mostra omonima che fu inaugurata a Torino circa 20 anni fa.

Non so come il Centro Scavi non aveva una foto decente della statuetta con corpo in alabastro e testa in oro, per cui mi incaricarono di fotografarla anche se ero già in pensione da qualche anno.

Ricordo che diversi funzionari della Soprintenda assistettero all'apertura della cassa che la conteneva e la qual cosa mi creò una sorta di apprensione anche perchè sono abituata a lavorare da sola, senza che nessuno mi stia tra i piedi o tantomeno che mi osservi.

Le riprese in bianco e nero e diapositive a colori di 6x7 cm dovevano essere non solo perfette ma non ammettevano replica, altro che le digitali e tutto quello che la tecnologia odierna offre!!!

Adesso, pur usando io la digitale e benedetto il momento in cui è stata inventata, posso dire e con cognizione di causa che tutti possono essere dei bravi fotografi, ma in campo archeologico oltre al buon uso del mezzo, entra in campo l'appropriata illuminazione che metta in evidenza le particolarità, non sempre ben evidenti del reperto che si deve documentare.

Come mi è capitato in seguito anche con il mezzo digitale, le riprese devono essere subito buone anche perchè non c'è il tempo di effettuare dei ritocchi con photo-shop anzi in più sempre ho scaricato la Cf direttamente sul pc dell'archeologa con cui stavo lavorando.


Sono riuscita a trovare in rete alcuni degli oggetti degli scavi, come questo deliziosi cestino in ceramica invetriata.

Purtroppo le dimensioni delle foto postate sono veramente poco omogenee ma non ho potuto, o saputo, fare di meglio....

Qui sotto è raffigurata la copertina di una importante opera del Prof. Invernizzi,una delle tante, articolata in tre grandi tomi e contenente tutte le mie riprese relative ad un tema specifico: le bullae.

Ripeto le dimensioni delle foto postate sono varie, ma i reperti raffigurati sono grandi come un'unghia. Delle bullae ho parlato in precedenza e quindi qui non mi ripeto.




A sinistra sono rappresentati gli scavi di Tell Omar, che furono sottoposti a restauro.

Infatti ad un certo punto la missione si allargò parecchio e cominciarono ad arrivare gli "esperti" profumatamente pagati,che furono appunto ingaggiati per il restauro del sito che ho menzionato.

E' possibile vedere dalle foto l'andamento urbanistico che, essendo costruito con mattoni di terra essiccata al sole, era inevitabilmente soggetto al degrado atmosferico.

Di pioggia neanche a parlarne, ma le tempeste di sabbia che "accarezzavano" sicuramente con veemenza tutto ciò che incontravano non era certo una cura di bellezza per certi siti archeologici.

Gli operai sullo scavo sistemavano in una cornice quadrata della terra impastata con acqua e quando questa forma si era sufficientemente compattata, veniva sfilata dalla forma e messa a seccare al sole.

Ricordo che arrivò un chimico, un ingegnere minerario, un architetto, vari altri "esperti" e un altro fotografo, che doveva fare le riprese fotogrammetriche e aiutare me nelle riprese dei reperti una volta finito il suo lavoro, cosa che non fece continuando a cincischiare con le sue lastre fino a quando il suo capo mi chiese se c'era collaborazione.

Quando gli dissi che di collaborazione non ce n'era proprio lo spedì a fotografare e lo fece fino mezzanotte.

Vennero anche le mogli degli esperti, non ricordo a quale titolo, probabilmente si pagarono il viaggio e le spese di soggiorno visto che il periodo di permanenza dei relativi mariti era di circa tre mesi.

Vennero anche degli archeologi da Roma e dalla Sicilia (non ricordo la città) che non legarono assolutamente con i colleghi di Torino per cui il clima spesso era abbastanza teso.

Gli scontri non dico fossero all'ordine del giorno, ma abbastanza frequenti.

Litigavo spesso con la preistorica che era venuta da Roma e che era risentita nei miei confronti in particolare e con la Missione in generale, perché non facevo le riprese dei suoi reperti al museo e non stampavo le foto relative.

Io del resto ne avevo avvastanza del mio lavoro per cui non mi sognavo certamente di accollarmene dell'altro!!!

In più mi scroccava sempre le sigarette.

Una mattina stavamo andando tutte e due al Museo e mi disse :" Dammi 5 o 6 sigarette così mi bastano tutta la mattina" e a quel punto gliene dissi quattro.

In seguito stipulammo un patto di non belligeranza che sopravvisse anche all'incendio da lei provocato nella mia camera.

Non avevo mai comprato un asciugacapelli in quanto in missione ce lo scambiavamo.

Quell'anno invece feci la spesa pazza, ahahah, e ne acquisti uno da poco prezzo.

Un giorno la mia, chiamiamola così, amica me lo chiese in prestito e visto che la mia camera era vicina al bagno, dopo essersi lavata "il capello" come diceva lei, e fatta la tinta venne ad finire l'operazione di asciugatura sempre in camera mia.

Peccato che per andare a controllare il colore in bagno avesse lasciato il phon acceso nel letto che aveva il materasso di plastica per cui, dopo essersi contemplata a dovere davanti allo specchio, tornando sui suoi passi trovò la stanza in fiamme.....

Per fortuna io ero nel gabinetto fotografico per cui mi persi la scena, ma il puzzo di bruciato me lo ricordo ancora.

Dovette far ridipingere la stanza, ripagarmi i danni di tutto quello che l'incendio aveva distrutto, non molto, per fortuna!!

Purtroppo devo raccontare ancora altre cose prima di parlare dell'incontro con quello che sarebbe diventato mio marito, ma giuro che non farò passare altre 4 mesi prima di farlo.

Alla prossima!!!












giovedì 4 settembre 2008

Le mie missioni... parte terza

Questa e le foto che seguono sono state scattate in occasione dell'inaugurazione della mostra, avvenuta nel febbraio del 2007 a Torino a Palazzo Madama.

Qui sono raffigurati alcuni mebri della Missione.

Al centro, con gli occhiali da sole, il prof Gullini che ormai non c'è più.... una perdita incalcolabile!!!!

La qualità delle foto è scadente in quanto le riprese sono state effettuate durante lo scorrimento di un video che mostra le varie tipologie di bullae.....

Che ho fotografato a migliaia....

Le bullae sono degli gnocchetti di argilla dalla grandezza variabile, da un'unghia fino alla dimensione di una grossa noce, su cui furono impresse varie figure e scritte in greco.....

Da un minimo di una fino ad una ventina, tutte fotografate ad una ad una....

Furono studiate, inventariate, ne furono fatti calchi e il risultato di questi studi è apparso in una grossa pubblicazione in tre volumi, suddiviso per tipologie.....

Ritratti semplici, doppi, figurine, mascheroni, animali .... e scritte in greco

Le ho fotografate in bianco e nero....

Le ho stampate in scala....

Le ho fotografate a colori, diapositive....tutte macro...

Le ho scontornate per eliminare il grumo di plastilina che serviva a sorreggerle....

E sempre con 2 lampade da 500 watt..... d'estate poi era una goduria!!!

La foto qui sotto rappresenta una della migliaia di terracotte fotografate..... carinissima!!!

Perché proprio Seleucia?

Il mio direttore prima di iniziare l’avventura iraquena, dopo un approfondito studio di Erodoto, l’aveva scelta e non so in base a quali criteri.

L’Iraq è un paese incredibile: ovunque si vada, appena un pò fuori città e nelle vicinanze di siti archeologici che sono veramente tantissimi, è possibile, grattando un po’ il terreno, vedere affiorare dei reperti archeologici.

Magari non vasi interi o monete o terrecotte ma sempre qualcosa di veramente interessante.

Si diceva che il venerdì , giorno di festa, alcuni diplomatici, e in quel tempo le ambasciate straniere in Iraq erano veramente tante, andassero in giro nelle vicinanze di questi siti “for telling”.

Ora spiego cosa vuol dire.

“Tel”, in arabo, vuol dire collina (tanto per dire noi scavavamo a Tell Omar) e quindi andare “for telling”, neologismo creato per l’evento, voleva dire andare in questi luoghi, scavare e non tanto in profondità e razziare tutto quello che potevano trovare.

Poi con la valigia diplomatica potevano far uscire dal paese tutto quello che volevano….

I metodi di scavo erano poi a volte dissennati.

Ricordo che una volta eravamo andati in gita ad Ur e la missione tedesca invece di andare in profondità, scavando strato per strato, aveva creato una voragine profonda parecchi metri e si vedevano gli strati in cui affioravano frammenti di ceramica.

Nessuno degli archeologi seppe trovare una risposta ad un modo così poco ortodosso di condurre uno scavo……..

Nonostante la mia ignoranza in materia ricordo che rimasi veramente colpita.

Il nostro direttore invece usava un metodo non so se ideato da lui o copiato da altri che consisteva nel dividere lo scavo in quadrati.

Così era possibile registrare sul giornale di scavo tutte le notizie relative a quello che giorno per giorno veniva fuori sia per ciò che concerneva i materiali che per ciò che riguardava l’urbanistica del sito.

Ricordo ancora che una sera, i nostri erano tornati a casa pazzi di gioia.

Avevano trovato un tesoretto di monete d’argento raffigurante Cosroe II ancora avvolto in un sacchetto di tela.

Io lo fui un po’ meno.

Trovare un tesoretto di 387 monete vuol dire fare 764 foto, verso e retro anche se erano tutte uguali.

E ricordo anche che qualche giorno dopo andando al suq ne vidi UGUALI in un negozietto.

Ora io, dopo averne fotografare una ad una me le ricordavo bene….. ma non chiesi da dove venivano e come le avessero acquisite anche per un impedimento linguistico!!!

La nostra vita di missione non era per nulla travolgente.

Diventava presto una routine quotidiana.

Per chi andava sullo scavo, come ho già detto, voleva dire alzarsi prestissimo e, ancora addormentato affrontare un viaggio di 60 km in parte, il tratto più breve, su strade urbane e per il resto su strade meno agevoli.

Per chi restava in città voleva dire stare in casa tutto il giorno, rintanarsi o nel gabinetto fotografico con il condizionatore che andava a palla, a sviluppare e stampare o fotografare in altri locali reperti dal mattino alla sera.

Qualche volta, tanto per dare una botta di vita alla mia giornata saltavo il pranzo e andavo a piedi al suq.

Da sola.

Bastava o prendere uno di quei microbus stipati all’inverosimile di gente oppure andare in taxi o, appunto andare a piedi.

Bastava andare, per recarsi al suq “safafir”, il suq del rame, dal ponte, quello vicino a casa all’altro, attraversarlo arrivando così in Rashid Street la via più importante e caotica di Bagdad.

La città è divisa dal Tigri e le due parti sono collegate da 7 ponti per cui anche con il mio senso di orientamento pari a zero riuscivo, senza perdermi, recarmi a destinazione senza problemi. Se ciò fosse avvenuto non so cosa avrei potuto combinare!!!!

Acquistai tutto il possibile, piatti, vassoi, samovar, tappeti e non solo lì ma anche in Saadun Street dove all’epoca numerosi erano i negozi gestiti da iraniani, stoffe nel vicino suq delle stoffe e spezie.

Il suq delle spezie era poi un tripudio di colori e di profumi.

Montagnole di polveri colorate e tutte di tonalità calde erano disposte in bell’ordine sui banchi.

L’unico problema era rappresentato dal fatto che non conoscevo l’utilizzo per la maggior parte di esse per cui le mie scelte furono limitate, ma acquistai chiodi di garofano (ne ho ancora) cannella in stecche e in polvere, zafferano (il più caro) curcuma, noci moscate e altro ancora.

In questo suq non ebbi modo di contrattare ma ogni singola cosa, ogni acquisto era preceduto da una accanita contrattazione e alla fine divenne una cosa estenuante anche perché essendo io bravissima lo facevo anche per gli altri.

Poi tornata a casa , a Torino, mettevo le spezie in sacchettini con l’indicazione del contenuto e li regalavo per Natale.

Un successo!!!

Potrebbe essere un’idea per chi mi legge, ma sicuramente sarà già venuto in mente.

La sera come ho detto in precedenza dopo cena si faceva poco ( e parlerò in seguito di come ho cominciato a flirtare con colui che divenne mio marito, perché ciò avvenne alcuni anni dopo!!!).

Si leggeva, si scriveva a casa, si giocava a carte e per la precisione a scopa.

In una di quelle occasioni mancava il quarto giocatore.

Ora io sono un cane a giocare a carte, non mi piace, non ricordo le carte buttate dagli altri, non so contare i punti, ma…… mancava il quarto.

Allora il mio direttore mi invitò a prendere posto al tavolo da gioco.

Io ne combinai di tutti i colori anche se conoscevo qualcosa delle regole….. tanto per dire riuscii anche a scartare il settebello.

Insomma feci perdere la partita al mio direttore.

Che odiava perdere.

Che mi disse ringhiando sottovoce: “Quando non si sa giocare, non si gioca!!!!”

“Aspetta, pensai io, non mi freghi più!!

Qualche sera dopo mancava di nuovo il quarto…..

Il mio direttore mi venne vicino e mi disse con voce flautata: “Grazia , viene a giocare?”

Ed io gli risposi seria, seria: “IO CON LEI NON SCOPO PIU’ “

Questa fu la madre di tutte le gaffes!

Io ero veramente un’anima di dio e, giuro, non sapevo altri significati della parola in questione oltre a quello di ramazzare ….. frutto forse dell’educazione!

Ricordo nettamente che quella sera tutti i presenti sobbalzarono sulle poltrone, andandosi a rotolare dalle risate dietro le tende.

In seguito tutti quelli che arrivavano a Bagdad, facenti parte la missione, erano accolti all’aeroporto dalla frase :” Ma lo sai cosa ha detto Grazia a Gullini?”

Dopo tanti anni credo che qualcuno se lo ricordi ancora!!!

mercoledì 6 agosto 2008

Le mie missioni...seconda parte

Chiedo scusa per il lungo intervallo intercorso dal primo post ..

Sono sempre qui al pc ma ho prediletto l’altro blog di cucina che mi ha impegnato molto di più….

Rileggendo i commenti e ringraziando tutte le amiche che li hanno lasciati, scusandomi qui per non aver risposto, emergono due tipi di…… affermazioni (il vocabolo non è molto azzeccato probabilmente) e cioè l’ammirazione, se tale si può definire, per un lavoro che mi ha portato così lontano e il rimpianto per alcune delle mie amiche di non aver potuto realizzare il loro sogno e cioè di fare l’archeologo.

Il fascino di andare in terre lontane, di vedere emergere dal terreno polveroso reperti preziosi celati per centinaia di anni, e nel caso dell’Iraq da almeno 2 millenni, rimane intatto!!

Però pochi sanno che il lavoro dell’archeologo, e io lo posso affermare con cognizione di causa, è duro.

Intanto ci vuole una profonda conoscenza della storia e della letteratura antica: all’epoca si poteva accedere alla frequentazione delle facoltà umanistiche avendo alle spalle la maturità classica.

Lo studio del latino e greco e la conoscenza delle opere degli storici era basilare.

Ricordo che il mio direttore si era basato sulla storia di Erodoto per scegliere in quale sito archeologico andare a scavare.

Ricordo ancora un affascinante studente afgano che disperatamente studiava privatamente il greco per poter frequentare le lezioni e di più non posso essere precisa.

Poi quello studente sposò una “collega” e con lei andò a lavorare a Kabul.

In seguito ne combinò professionalmente di tutti i colori, rubando reperti e rivendendoli e collezionò anche tra gli altri insuccessi anche il naufragio del suo matrimonio….. ma questo spesso accade nei matrimoni con gli stranieri!

Intorno all’inizio degli anni’60 l’Istituto, proprio per il fascino esercitato dall’archeologia e forse proprio perché sembrava uno studio di fascia “alta” era frequentato da ragazzi appartenenti alla buona borghesia.

C’era la contessa C.di A., il conte di L. e qualche volta mi è capitato di frequentare le loro case in cui ero accolta da un maggiordomo e vi giuro che quando tornavo a casa mia beh…questa mi andava un po’ stretta!

Allora non capitava come oggi, specie nel mio ambiente, di sentire un sussurro profumato di Caleche o Chanel n. 5 che mi svelava che quell’abitino così carino che stavo appena ammirando era “UN LANVIN”!!!.

Dicevo, e ogni tanto mi perdo un po’ nei ricordi, che il lavoro dell’archeologo era ed è duro anche se ora i supporti tecnologici aiutano notevolmente il lavoro di schedatura dei reperti e la catalogazione delle immagini .

L’archeologo deve studiare sempre, scavare e pubblicare e tutti coloro che professionalmente lavorano in ambito universitario lo sanno.

Come per i medici, i ricercatori ecc, è basilare il numero degli studi che hanno pubblicato!!

Nel nostro caso specifico e dovendo lavorare all’estero era ed è importante l’organizzazione della missione.

Quindi occorre scegliere residenze cittadine ( nel nostro caso da una villetta siamo passati a tre quando il numero dei “missionari” è aumentato), reperire personale di servizio, cuoco, camerieri e cameriere, giardiniere, autisti, almeno 2 perché la località di scavo era a 60 km di distanza.ecc

All’inizio gli archeologi che tutte le mattine dovevano andare sugli scavi erano solo tre (quelli che si erano appena laureati con il nuovo direttore) e si dovevano alzare alle 5 per essere presenti sullo scavo in contemporanea all’arrivo degli operai addetti allo scavo.

In seguito il numeri di essi aumentò e si trovarono soluzioni più comode di alloggio direttamente sullo scavo.

Qui vale la pena di parlare di questo prezioso tipo di collaboratori.

Costoro erano degli operai specializzati che provenivano da un villaggio al nord dell’Iraq (e spero di non sbagliare!!) che si chiamava Kalas Shergaat e quindi loro erano ovviamente gli Shergatin.

Sapevano esattamente cosa dovevano fare, come dovevano adoperare la cazzuola, cosa si aspettavano da loro gli archeologi….

Erano preziosi insomma e spesso venivano incensati, in un caso eccessivamente, come capitò una volta per il loro capo che veniva chiamato “LA PERLA”.

Due palle così a sentire : La perla ha detto questo (in arabo ovviamente)…. La perla ha sorriso così …. Per fortuna era bravo e forse questa specie di incensamento serviva, visto che era il capo, a far funzionare meglio il gruppo.

Il pranzo, preparato dal cuoco la sera prima, era rappresentato da panini farciti con del formaggio iraqi che sembrava plastica bianca sminuzzata condita con olio e sale), probabilmente forse anche della verdura..

Devo dire che a me interessava poco in quanto io rimanevo in città quindi per me la cosa era diversa.

Ricordo ancora quando tornavano la sera verso le 17, sporchi, pieni di polvere, famelici che si piazzavano davanti al frigo in cucina sotto lo sguardo costernato del cuoco e che prelevavano tutto il commestibile e lo divoravano.

Poi doccia, cena, magari quattro chiacchiere con un bicchiere di wishey davanti e una ciotolona di pistacchi da sgranocchiare e in seguito o si scriveva a casa o si continuava a studiare e catalogare in restauro o si flirtava un po’…..

Quanti amori sono nati in missione…… compreso il mio!!!

domenica 8 giugno 2008

Le mie....missioni


Avevo 22 anni la prima volta che andai a Bagdad.


Capello corto, cotonato, occhiale nero ( tornato di moda di recente). Trucco un po’ pesante con riga sugli occhi e palpebra superiore con spesso strato di ombretto azzurro.


Insomma un orrore, ma allora si usava e io mi vedevo carina anche conciata a quel modo.


Ricordo ancora che quando dissi a mio padre che dovevo partire, da sola e primo viaggio in aereo, lui mi rispose:” Cosa ci vai a fare a Bagdad?” ma non con la curiosità di chiedermi cosa avrei fatto di bello, quali sarebbero state le mie mansioni, ma proprio con la domanda implicita di chi si chiedeva chi me lo faceva fare ad andare fin là.


Dico questo per rendere chiaro il tipo di mio padre, per rendere ancor meglio il suo pensiero su tutto quello che si discostava dalla routine quotidiana.

Ricordo ancora che avevo un bellissimo cappotto marrone doppiopetto comprato alla Facis (qualcuno si ricorda ancora il negozio della Facis di Torino?), con collo di finta pelliccia di foca, bellissimo.

Allora ero ancora magrolina e facevo la mia sporca figura anche unita alla giovane età.


In quell’occasione dovevo portare, insieme ai miei bagagli, un pezzo di ricambio che serviva per far funzionare un meccanismo sullo scavo, ma non chiedetemi quale fosse.


Era stato imballato in un cubo di legno pesantissimo, e all’arrivo all’aereoporto di Bagdad, che era in città, feci impazzire di curiosità gli ottusi funzionari della dogana perché alla richiesta di informazioni su cosa contenesse quella scatola di legno anziché rispondere con il mio inglese approssimativo, ma il loro lo era ancora di più, che era una ruota dentata risposi che era un “dish with fingers” e loro si arrovellarono al pensiero di un piatto con le dita.


Ma non fu l’unica prodezza verbale che mi capitò di dire.


Arrivati in città mi colpì l’odore che aleggiava nell’aria e, quando lo sento, ricordo ancora che per me quello era il “profumo” di Bagdad.


L’odore di gasolio.


La casa della missione era una villetta situata in una zona denominata Karradat Màriam vicino alla quale sorgeva, giusto all’altro lato della strada, la chiesa cattolica dove tutte le domeniche sera si celebrava la messa.


La villetta, con giardino, era a due piani con al pian terreno i locali di rappresentanza e studio, sala da pranzo, biblioteca, cucina e al piano superiore la “zona notte e la sala disegnatori.




A metà rampa di scala c’era il piccolo locale che avrei dovuto trasformare in gabinetto fotografico e la prima difficoltà che incontrai fu quella di trovare al suq la stoffa nera per realizzare la camera che doveva essere proprio oscura.


Lo spazio a disposizione era veramente ristretto e suddiviso un due piccoli ambienti: il primo, quello in cui si accedeva direttamente dalle scale, era quello destinato all’essiccamento delle foto che avveniva grazie ad una vecchia rotativa spedita da Torino che andava a criceti tento era lenta e da un essiccatore per pellicole, mentre nell’altro locale, la camera oscura vera e propria, era attrezzata con un ingranditore, 2 bromografi per la stampa a contatto dei negativi, lavandino con piano d’appoggio per le vaschette delle soluzioni fotografiche e armadietti pensili che fungevano da dispensa per il materiale fotografico.


C’era anche un filtro per l’acqua veramente indispensabile, altrimenti tutte le impurità, come ad esempio la sabbia, si sarebbe depositata sulle pellicole.


Cito per ultimo, ma non meno importante, l'esistenza di un condizionatore ingovernabile che andava a palla tanto che, quando uscivo dal mio antro, mi sembrava di andare dal frigo al forno.


La missione all’epoca era piuttosto sparuta e cioè composta da pochi elementi, ma col passare degli anni si sarebbe arricchita di altri membri: i cosiddetti “esperti".



In testa c’era il nostro direttore, allora poco più che quarantenne, tre giovani laureati , il geometra per i rilievi sullo scavo, il restauratore ed io.


Il personale di servizio era costituito da un cuoco, perennemente terrorizzato dal direttore che gli urlava, in un inglese che assolutamente non capiva, che quello che cucinava faceva schifo, un giardiniere Gheorghis, suo figlio Gibrail (loro erano una dinastia completamente destinata al servizio presso le case degli stranieri), la donna delle pulizie che si occupava anche della lavanderia ed un enorme autista di nome Koshaba che era capace di mangiarsi durante il tragitto Bagdad-scavi (un’ora di percorrenza) i cetrioli con tutta la buccia che riempivano completamente il cruscotto della land Rover passo lungo, tanto per dare un’idea delle dimensioni del mezzo.


Il mio lavoro consisteva nello sviluppo e stampa dei negativi, che ogni sera andavo a recuperare dalle borse degli archeologi appena essi arrivavano dallo scavi, sporchi di polvere e affamati ,nella ripresa degli oggetti e come mi capitò di fare inseguito di molto altro ancora.


Ma… voglio lasciare ancora un po’ di curiosità!!!!!!

Ultima annotazione.


E' strano che non ci siano foto, vero?


Ma allora era più prudende girare senza macchine fotografiche!!


Per dovere d'informazione la foto che appare all'inzio del post , con mio grande struggimento e dolore pensando a come Bagdad è ora ridotta, è presa da Internet.


domenica 27 aprile 2008

Tecniche di lavorazione: la mia vita dentro e fuori la camera oscura


Mio padre era meridionale, geograficamente e … mentalmente.

Non potei andare in piscina con la scuola che frequentavo perché l’istruttore era un MASCHIO.

Mio fratello che era un maschio sì invece, ma gli veniva da vomitare tutte le volte che ci doveva andare.

Devo dire che a tanti anni di distanza non riesco ancora a capire come mai mi iscrisse all’Istituto tecnico per Arti Grafiche e Fotografiche, frequentato esclusivamente da ragazzi.

Dal 1956 al ’60 l’istituto si trovava in via Sant’Ottavio proprio vicino a dove in seguito fu costruito Palazzo Nuovo.

Chi è di Torino sa a cosa mi riferisco.

L’ultimo anno fu trasferito in Via Ponchielli all’altro capo della città, ¾ d’ora di tram. Attualmente il nome dell’istituto è Bodoni.

Studiavo anche in tram e ripetevo le lezioni ad una mia amica che faceva la commessa da Vidor in Via Roma ( vendita di capi di cachemire che esiste ancora adesso).

Otto ore al giorni di lezioni, con intervallo per il pranzo.

Lezioni anche il sabato, mezza giornata.

Poi compiti ancora da fare a casa, la sera.

Teoria tanta.

Pratica poca.

Una settimana si frequentavano le lezioni di foto artistica ( ritratti con un monumento di macchina fotografica a lastre 13x18, diaframma sempre lo stesso, luci più o meno anche ). Ricordo ancora il mio professore: il Professor Riccardo Scoffone.

A me sembrava vecchissimo e ci faceva le lezioni standosene seduto su una sedia con una coperta termica sulle gambe.

Le lezioni avevano luogo nello scantinato della scuola ma non mi sembra che facesse poi così freddo.

La settimana dopo facevamo fotografia industriale: riprese varie con lastre o pellicole 9x12 cm che venivano sviluppate 15 giorni dopo.

Insomma per farla breve per vedere i risultati stampati dei nostri sforzi doveva passare un mese e mezzo.

Quando cominciai a lavorare, presso l’Istituto di Archeologia furono dolori.

Sapevo fare veramente poco.

Il mio direttore invece era un genio della fotografia e quando era a Roma stampava a colori confrontando i provini direttamente con i mosaici che aveva fotografato.

Allora lo sviluppo del colore, anche nei laboratori fotografici, avveniva per tentativi eliminando per mezzo di filtri e volta per volta, le dominanti di colore che potevano apparire sui provini.

I tempi di sviluppo duravano un’ora e la temperatura doveva essere costante: 24° esatti altrimenti i colori potevano alterarsi.

Ovviamente i laboratori avevano dei dispositivi che garantivano la temperatura costante, io dovevo farlo a mano.

Piano piano imparai, grazie al mio capo, tutte le astuzie riguardanti la fotografia

Il mio lavoro consisteva in riprese di oggetti, ovviamente reperti archeologici, riproduzioni da libri, microfilms, stampa in bianco e nero, riprese a colori e relativa stampa su carta , sviluppo delle diapositive, gigantografie su tela e su carta e tutto da sola.

Ne ho fatto veramente di tutti i colori in ogni senso.

All’inizio dovevo fare le riproduzione da libri delle fotografie che servivano per le lezioni di Archeologia Greca e Romana. Dai negativi dovevo fare la stampa su materiale trasparente, montarlo in telaietti , pulendone i vetrini, una valanga ogni volta, stampa a contatto per le schede e ingrandimenti per le dispense, in 3 copie .

Col passare degli anni i corsi aumentarono.

Si aggiunsero oltre ai corsi già citati, e ci sono tutt’ora quelli di archeologia orientale, medievale, cristiana e quelli di etruscologia.

Poi cominciarono le missioni in Iraq da ottobre a Natale e alcune volte non tornavo neanche a casa e mi fermavo fino a Pasqua.

In Missione il lavoro era di tutto riposo.

Dovevo fotografare centinaia di oggetti, a volte migliaia come nel caso delle bullae, di cui dovevo fare anche le diapositive.

Il lavoro doveva andare bene subito e non era ripetibile perché, a fine missione, dovevamo consegnare gli oggetti alle autorità iraquene .

Le diapositive venivano sviluppate in Italia e per il bianco e nero quello che non riuscivo a fare a Bagdad doveva essere completato in Italia.

Ovviamente dovevo sviluppare e stampare anche le foto di scavo e stamparle in triplice copia.

Oltre al lavoro di fotografa, durante varie missioni avevo anche l’impegno di dirigere l’andamento delle case della missione, una sorta di governante: dirigere la servitù, decidere i menù, tenere i conti ed organizzare eventuali cene di rappresentanza.

Essendo noi una missione archeologica all’estero, a volte capitava di dover invitare per cene o ricevimenti ambasciatori di altre nazioni o funzionari iraqueni con cui eravamo in rapporti di lavoro e con cui il mio capo aveva rapporti di amicizia.

Poi cominciai ad andare anche in Calabria e In Sicilia sempre per riprese oggetti, ma anche per fare riprese fotogrammetriche.

Ricordo ancora con angoscia quando fotografavo dall’alto gli scavi, con una speciale macchina adatta a questo tipo di riprese, in un cestello tipo quelli che usano gli operai dell’Enel per la riparazione del lampioni.

Feci questo tipo di riprese anche in Iraq.

Il mio direttore non volle che, durante sia il viaggio aereo di andata che di ritorno, spedissi le macchine fotografiche che erano custodite in 2 valigette di legno col resto del bagaglio.


Le dovetti portare con me in cabina: 2 scatole di legno del peso di 16 chili , una per mano e con la borsetta fra i denti.

In Iraq dovetti fare le riprese fotogrammetriche al palazzo abbasside per eccellenza: il TaK-I Kisra.

La storia e l'importanza di questo palazzo che rappresenta l'Iraq andrebbe approfondita da chi lo desiderasse andando a consultare le pagine, numerose presenti in Internet.


Ricordo ancora quando, all’ombra di una tenda e seduta per terra, toglievo le lastre impressionate dagli schiassis, le riponevo nella scatola delle lastre esposte e le sostituivo con lastre vergini.

Forse qualcuno si chiederà come lo facessi alla luce del sole anzi all’ombra di una tenda.

Usavo uno speciale manicotto nero di tela spessa che noi fotografi chiamavamo “mutanda”

In effetti assomigliava ad una mutanda e questa recava sul lato alto, diciamo di un ideale punto vita, una lunga cerniera, aperta la quale, si introduceva tutto quello che ci serviva per il cambio delle lastre: scatole di lastre nuove o contenitori vuoti da riempire o da cui prelevare le lastre vergini.

Dai due lati da cui ipoteticamente dovevano uscire le gambe si introducevano le braccia e quindi, con cautela si effettuava lo scambio.

E di questo tipo di riprese ne ho fatte veramente tante.

Quando si trattava di fare gigantografie, e questa volta nella camera oscura dell’istituto, facevo scorrere l’ingranditore su guide metalliche e proiettavo i negativi sul muro.

Il bidello mi aiutava a piazzare la carte o la tela e a fissarla con nastro adesivo poi sviluppavo queste lenzuola e questa volta da sola in vasche lunghe 2 metri.

Ancora non mi sembra vero di essere riuscita a fare tutto questo.

E le settimane, in estate, passate a fotografare le bulle che erano una sorta di gnocchetti di argilla a forma di anello che servivano per accompagnare dei documenti, ognuna delle quali poteva contenere da una a venti impronte!. Tutte da fotografare una per una. E con 2 lampade da 500 watts addosso e in una stanzetta chiusa.

Spesso il rilievo delle figure era appena percettibile ma io dovevo evidenziare al massimo ogni dettaglio.

La maggior parte delle riprese dovevano essere buone subito e con le diapositive non era possibile fare nessun ritocco.

Ricordo ancora il mio direttore che, gonfiando il petto con orgoglio, diceva ai suoi colleghi che il laboratorio fotografico era in grado di fare qualunque cosa.

Lo avrei azzannato.

Il laboratorio fotografico ero IO.

Quando durante la guerra in Iraq i ladri dopo aver razziato tutto quello che potevano nell’Istituto italo-iraqueno, radunarono nella biblioteca tutti i libri di cui era dotata per dare loro fuoco mi venne male.

Quei libri li avevo fotocopiati tutti io con una delle prime fotocopiatrici apparse sul mercato: un vero monumento.

Una buona parte di quei libri li avevo fotografati io riproducendoli dagli originali: riprodotti e stampati su carta fotografica per posta aerea per diminuirne il peso.

Ora con le nuove tecnologie è una PACCHIA.

Quando sono andata in Libano e in Giordania avevo la mia piccola adorata Canon nella borsetta e non più un trolley pieno di macchine fotografiche.

Mai più ore ed ore in camera oscura al caldo o al freddo o al tiepido come mi è capitato nella cantina di casa mia con la temperatura dei bagni a 8°. Dovevo portare assolutamente la temperatura alla giusta gradazione e ciò avveniva con l’immersione, a bagnomaria, nelle vaschette contenenti i bagni di sviluppo e di fissaggio, di pentolini contenenti acqua bollente altrimenti col fischio che riuscivo a sviluppare e fissare le stampe.

Ora fare il fotografo è più semplice con la digitale, computer e con photoshop.

Ma rimane sempre la tecnica, l’esperienza, il saper illuminare i reperti per tirare fuori tutti i dettagli.

Nessun programma di ritocco col computer lo può fare.

Almeno mi illudo.

Voglio solo dire per, concludere che quando andai in pensione in Istituto avrebbero avuto bisogno di tre persone per fare il lavoro che facevo io .

DA SOLA

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